Sono pochi i ricordi indelebili della mia infanzia, Tra questi: senz’altro la prima volta che ho sentito “Jammin'” di Bob Marley, il primo ascolto di “Police & Thieves” nella versione dei Clash e – senza alcun dubbio – Johan Cruyff. Ricordo il momento, forse non la data esatta, ma sicuramente le sensazioni che ho provato: era una porta che si apriva verso un nuovo mondo con suoni e colori che non credevi possibili. Era incredulità, stupore e felicità per tanta bellezza.

Vedere giocare l’Ajax e l’Olanda è stata una folgorazione. Non avevo ancora dieci anni e grazie a lui cominciavo a capire – diciamo intuire – alcune verità fondamentali.
Il calcio non è solo calcio; non è solo vincere o perdere. Insomma, la sconfitta o la vittoria sono solo l’inevitabile epilogo. Con Cruyff ho dubitato che fosse solo questo, lui era la prova provata che c’era ben altro. Tutto quello che succedeva dal fischio d’inizio a quello finale contava, eccome se contava. Non era importante solo cosa facevi, ma come lo facevi. E lui giocava al calcio come nessuno lo aveva fatto prima.

A casa mia la TV a colori doveva ancora arrivare, eppure con lui il calcio aveva improvvisamente smesso di essere grigio. L’Ajax ha cambiato il calcio e Cruyff era al centro di questa rivoluzione.
È stata una rivoluzione totale, fuori e dentro il campo. I capelli lunghi degli olandesi, le loro basette importanti, il ritiro con le mogli, i terzini che partecipavano al gioco invece di limitarsi a distruggerlo, definiscono una sorta di (personalissimo) ’68 calcistico. Guardavo le prime partite dell’Ajax e non capivo più niente: questo non era il gioco che avevo imparato ad amare. Era un’altra cosa e Cruyff era un campione come non si era mai visto. Era genio e disciplina, o almeno così sembrava.

Tre generazioni sono troppe per azzardare dei paragoni, ma credo che il destino potrà regalarci un altro Maradona. Al contrario, nessuno potrà più dare al calcio la stessa spallata che ha dato Cruyff.

Riposa in pace Johann e Thanx for all the fish.